La pena di morte? In Italia esiste ancora. In carcere

Cronaca
Stefano Cucchi, il 31enne romano morto la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 all'ospedale Pertini, sei giorni dopo l'arresto per spaccio di sostanze stupefacenti
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Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva. Per poche storie diventate note, ce ne sono molte altre dimenticate o ignorate. Nel libro “La pena di morte italiana” Samanta Di Persio ricostruisce gli episodi più inquietanti. Leggine un estratto

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di Samanta Di Persio

[...] Le condizioni di vita nelle prigioni italiane sono regolamentate da una legge del 1975, nota come «Ordinamento Penitenziario», che recita all’articolo 1: «Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose».
Eppure, nonostante la lettera dell’articolo reciti e chieda «il rispetto della dignità umana», nel 2009 l’Italia, per la prima volta, è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per «trattamenti inumani e degradanti», con successivo risarcimento danni a carico.
Perché tale condanna? Presto detto. Nel 2009, lo spazio a disposizione per ogni detenuto nelle carceri italiane era di circa tre metri quadri, secondo l’Europa dovrebbero essere 7,5. Ma le cose al momento attuale, non paiono essere migliorate. Nel marzo 2010 infatti la popolazione carceraria in Italia, era arrivata a oltre sessantaseimila unità. Nel solo Lazio i reclusi sono più di seimila, di cui gli stranieri sono il 37 per cento. I detenuti in attesa di giudizio sono circa la metà e i condannati definitivi sono più di tremila. Cifre che continuano a crescere, mentre gli spazi carcerari sono ben delimitati. Il sistema penitenziario, nel suo complesso, non regge più le ondate di ingressi. L’80 per cento degli istituti, poi, ha oltre un secolo di vita, le prigioni nuove non sono state ultimate e parecchi spazi sono sprecati o inutilizzati.

Lo racconta lo stesso ministro della Giustizia Angelino Alfano a «la Repubblica»: «La maggior parte delle carceri è stata costruita in secoli lontani e talvolta siamo fuori dal principio costituzionale dell’umanità». Una prigione su cinque, infatti, risale a un periodo che risale fra il 1200 e il 1500, e spesso è sottoposta a rigorosi vincoli architettonici. L’istituto peggiore, almeno a detta dell’Associazione Antigone, è quello di Favignana. La struttura si sviluppa quasi interamente sottoterra, uffici, celle e infermeria.
A seguire ci sono le case di reclusione di Poggioreale, Brescia, Belluno, Bolzano e Regina Coeli di Roma. Come si può notare, in questa classifica non ci sono distinzioni tra Nord e Sud, una volta tanto uniti nel male.
Se le vecchie carceri sono difficili da migliorare, i nuovi istituti sono difficili da completare o da mettere in funzione. Il carcere di Morcone (Benevento) è un triste esempio: è stato costruito, poi abbandonato, dunque rimesso a nuovo e infine lasciato di nuovoa se stesso. C’è anche il caso del carcere di Busaschi, in Sardegna, costato allo Stato cinque miliardi di vecchie lire ma mai attivo, nemmeno per un solo giorno.

A volere fare un’indagine sulle carceri del nostro Paese c’è anche il rischio di incorrere in veri e propri misteri. Lirio Abbate, ad esempio, ha approfondito la questione delle mancanze di celle e di personale. A un’analisi superficiale si potrebbe credere che la motivazione di fondo di questa carenza sia dovuta al mondo dell’economia, alla crisi finanziaria globale: mancano i fondi quindi mancano le strutture e il personale. In Italia, però, le cose sono sempre un po’ più complesse di quanto si crede. «Intere sezioni destinate ai detenuti trasformate in uffici» scrive Abbate, «ambulatori medici o magazzini. Celle chiuse e mai utilizzate. Si restringono così gli istituti di pena nel nostro Paese. Anzi, si riduce così la capienza regolamentare o tollerabile delle carceri, in particolare in quelle di provincia dove i detenuti vengono stipati in pochi metri quadrati, creando sovraffollamento.» Abbate è arrivato a queste conclusioni grazie alle dichiarazioni di Alfonso Sabella, ex direttore dell’Ufficio centrale dell’Ispettorato del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). Sabella ricorda: «Per fare qualche esempio, ad Ancona una sezione detentiva da oltre cento posti da cui sono stati addirittura rimossi i cancelli allo scopo di destinarla, ma solo apparentemente, a presunti laboratori di medici specialisti. Oppure un’intera sezione del carcere di Cassino che era stata adibita, e credo lo sia tuttora, ad accogliere gli archivi del vecchio carcere dell’isola di Santo Stefano, chiuso mezzo secolo fa. Mi viene in mente la sezione dell’alta sicurezza di Trapani dove le pareti venivano ciclicamente imbiancate per far apparire l’esistenza di lavori di ristrutturazione in corso oppure ancora le centinaia di stanze destinate formalmente a magazzini che ho trovato in molte carceri emiliane in cui erano sistemati solo un secchio e una scopa». L’ex direttore dell’ispettorato ricorda, poi, le ex sezioni femminili «perfettamente agibili e presenti in tante carceri e totalmente inutilizzate».

Ma da dove nasce questo uso totalmente irresponsabile degli spazi? Di certo, uno dei problemi è dovuto all’organico: i poliziotti sono mal distribuiti, nel Nord sono pochi, e spesso si assiste a situazioni di maggior disagio, rispetto al Sud che, invece, non ha problemi di organico.
Gli agenti di custodia in Italia sono circa 42.000, 4000 non in attività perché non assegnati o in aspettativa o in prepensionamento. Dei 38.000 rimasti, 2500 sono operativi nelle carceri con compiti amministrativi, 1700 al Dipartimento di amministrazione penitenziaria, 400 al ministero della Giustizia e altri 400 nelle Scuole penitenziarie.
A rendere le cose ancora più ingarbugliate e delicate c’è da un lato l’aumento dei suicidi (69 nel solo 2009), dall’altro le pessime condizioni di sovraffollamento oltre che le citate carenze di organico.

Questi elementi hanno portato a uno storico evento. La conferenza nazionale di Volontariato e Giustizia ha sollecitato, alla fine di maggio, i propri aderenti a realizzare manifestazioni pacifiche che contemplino anche – e qui rientra l’unicità del gesto – «l’autosospensione» dal servizio.
I volontari che svolgono servizio nelle carceri italiane (secondo i dati ministeriali disponibili) sono 9576: la media è di un volontario ogni sette detenuti. In Italia la presenza del volontariato non è uniforme. La Lombardia, regione con il maggior numero di volontari (2433) e di detenuti (9030), vanta la media di un volontario ogni 3,7 reclusi. Una condizione simile si ha in Veneto (3,6 il miglior rapporto) e nel Lazio (4,4). All’estremo opposto, c’è la situazione abruzzese, dove 162 volontari contrastano una presenza di 2329 detenuti: la media è di un volontario ogni 14,4 reclusi. L’ordinamento penitenziario italiano, inoltre, prevede all’articolo 78 che i volontari lavorino in stretta collaborazione con educatori, assistenti sociali e psicologi.
La grave carenza di tutte queste figure professionali ha portato nel tempo a far sì che siano i volontari stessi a sopperire alle carenze di organico. Una situazione che non può più reggere e che non si può affrontare con la semplice buona volontà dei singoli.
© 2011 Rizzoli

Tratto da La pena di morte italiana, di Samanta Di Persio, Rizzoli, pp. 220, euro 15

Samanta Di Persio. Collabora con Articolo 21 e Micro Mega. Autrice di “Morti bianche” e “Ju tarramutu. La vera storia del terremoto in Abruzzo.”

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